POESIA E MITOLOGIA

Musica da camera di Tiziano Bedetti, © Phoenix Classics PH 99523 Emmanuele Baldini (violino), Tiziano Bedetti (pianoforte), Cristina Biagini-Marco Marzocchi (pianoforte a 4 mani), Cristina Bianchi (arpa), Achille Gallo, (pianoforte), Bruno Ispiola (violoncello), Umberto Leonardo (chitarra), Sergio Zampetti (flauto), Tiziana Zoccarato (soprano). Playing time: 76’26”

PREVIEWS

Traccia Durata MP3
14 - Interludi Elegiaci: Vivace --:-- Play
15 - Marsia e Apollo 07:17 Play
17 - L’agave su lo scoglio: Allegretto marino --:-- Play
19 - Tre Ricreazioni: Adagio Cantabile --:-- Play
21 - L’Auriga Celeste: Il carro del Sole 09:21 Play

La forza della contemplazione

Esistono compositori capaci di rendere lo spazio del suono uno scenario dei sentimenti: Tiziano Bedetti appartiene a questa poetica ‘barocca’, che sceglie di animare il fondale della mente di suggestioni e reminescenze: il ricordo di un’ombra; di quanto il riflesso a picco delle cose ha lasciato sulla memoria, i nitidi rilievi del suo contorno. Così, il Primo dei Due Preludi per la mano sinistra per pianoforte (Remoto) nega l’idea stessa di sviluppo. Bedetti si limita a riempire lo spazio di un bicordo cromatico di echi e varianti ritmiche e dinamiche alla fine delle cui peripezie appare l’evidenza di un semplice, accordo aumentato. La percezione di un fenomeno è inenarrabile; il suo racconto è deformazione, sembra dire Bedetti, accostandosi, in questo modo, all’idea novecentesca della musica come puro suono, depurato di ogni ‘caratterizzazione’, drammaturgica. Nel Secondo Preludio, l’ondeggiare della misura tra ritmo binario e ternario si fa memoria di un evento che la scrittura tende a limitare in un’illuminazione inesprimibile, sorta di scala di luce che porta dove il pensiero cessa di essere suono. L’incedere per semitoni che guida alla misura finale, per moltiplicazione, riducendo i valori i ritmici, da 10/4, via via a 9/4 e poi 8/4, non è un finale; è la porta d’accesso a un mondo che per troppo sfolgorio di luce si rinuncia a tratteggiare. In Salvatore Quasimodo il panteismo diventa un modo di cercare la voce delle cose dentro la percezione del tempo. Nell’antica luce delle maree, per pianoforte, ha l’andamento di una Pavana: una danza rituale in cui la regolarità del basso viene costantemente disattesa dalle libere fioriture delle voci superiori. La scansione del brano procede per una sequenza di semitoni la cui caratteristica è il fatto che la melodia è come ‘incatenata’, quale voce interna di una serie di accordi in forma di rivolti. La regolare progressione ritmica viene interrotta da un episodio Poco Più Mosso in cui le note dell’accordo fondamentale conoscono la loro liberazione in puro canto: lo scioglimento dell’armonia nel libero slancio melodico ha qui l’aspetto di un bocciolo di rosa irrigidito dalla brina che i primi raggi dell’alba dischiudano alla luce. Nel seguito del brano, i due teatri: la progressione inesorabile del tempo, e il gioco di sguardi del tema liberato, si fronteggiano senza astio, in una progressiva scissione tra mente e natura che fa di questa parodia del Barocco un lamento ‘sentimentale’ in senso schilleriano: il compianto per la perduta ingenuità, che obbliga l’uomo a struggere il proprio slancio vitale nelle panie del linguaggio. La progressiva rarefazione con cui il brano si conclude lascia una curiosa impressione: pare che i paesaggi sonori progressivamente elisi continuino a risuonare nell’immaginaria percezione di un orecchio interiore; o forse è l’Anima Mundi? Velut Laurens, per pianoforte, è costruito su di un’ossessione di terzine che si avvolgono intorno al tema come il mirto intorno al tronco; la figura melodica che attraversa il brano è esile, sottile come la venatura di una foglia, per cui pure scorrono le linfe vitali. Si tratta, in effetti, della nota alterata in semitono ascendente di ogni fondamentale del basso, il che dà al brano una duplice prospettiva, quasi il felice effondersi del sentimento vitale espresso dalla mano destra fosse lo scenario dell’illusione, e il rigido, ‘bachiano’ procedere della sinistra quasi un’ Invenzione a due voci rappresentasse lo scorrere capriccioso e privo di legami col senso la ritmica sempre negata, con tutti quegli accenti sui ‘tempi’ deboli occulto dell’esistere. L’episodio centrale, Più Lento, è un suggestivo Canone a specchio, dove si recupera la fissità ipnotica dell’inizio, e al contempo il progressivo ritorno alla terra del dialogo finale tra le due mani, sempre più all’unisono, acquista il sapore di una sofferta riconciliazione. Il naturalismo di Salvatore Quasimodo è, si sa, tutto costruito sulla perdita della simbiosi tra sensi e fluidi terrestri nella cui immediatezza viveva la cultura greca. La Prima delle Due Liriche per voce e pianoforte, su suoi versi, Ora che sale il giorno, tenta un’operazione singolare: la musica si sviluppa sulle note ‘estranee’ all’armonia, creando una prospettiva sfuocata che pare la visione di un campo di grano sotto il sole a picco, nell’ ondeggiare della brezza. Le linee in dissolvenza emanano l’idea della notte come ristagno della visione in un punto dentro cui la memoria, oppressa dal suo stesso peso, sprofondi. Segue un Corale ‘chopiniano’, omaggio ai Notturni del grande Polacco, da cui si origina un progressivo frangersi della voce, ridotta alla fine al suo rattrappito sillabare. Un episodio in ‘recitar cantando’ conclude a un recupero del Corale ‘notturno’ che dilata il senso di solitudine all’intero cosmo, perché alla sua regolare scansione metrica non corrisponde, paradossalmente, un centro tonale. La Seconda Lirica, Autunno, persegue una scansione ‘ingenua’, leggera del testo, che si traduce in una straniante disarticolazione del suo senso, mentre continui cadenzari del pianoforte introducono nel racconto, come il fantasma senza volto di un sogno da cui ci si sia troppo presto svegliati, faglie senza tempo da cui brandelli di temi precedenti fanno capolino, disossati, come sono, dalla nècrosi del basso. Alle parole “caduto nell’ombra di un profondo baratro” il pianoforte frange il suo canto in una serie di reperti che paiono cocci di antichi vasi, mentre la voce scandisce le tappe della discesa agli inferi. Qui la musica si fa gesto, rituale senza tempo della risalita, fino a che una successione di terze diminuite non evoca l’idea di un prigioniero che contempli la luce da uno spiraglio che l’acqua abbia aperto nella pietra. Con felice intuizione, la Lirica, alle parole conclusive “che la terra raccoglie”, vede il pianoforte riunire tutti gli intervalli melodici fondamentali in un grappolo di note saldamente radicato nell’ identità degli accenti. In Una Lirica di Mario Luzi per voce e pianoforte, ritorna Tiziano Bedetti ‘decostruzionista’ dei Preludi: tutto il brano, infatti, è costruito sulle inversioni di un unico intervallo, a suggerire quel senso dell’”oscillare” su cui la Lirica è costruita. Qui, lo spazio, teatro della mente, accampa le sue ragioni sulla prospettiva del tempo, le dimensioni narrative della musica. La risoluzione irregolare del ritmo in fluide terzi ne accentua l’idea di una natura germinale, un mondo in rapida espansione, sotto l’ influsso radiante di un unico sole. Poi, sulle parole “un desiderio”, tutto si riassembla, e il percorso melodico riprende a specchio l’andamento della voce, variandone la linea per semitoni. Una Cadenza in Precipitando, infine, conduce, come un varco che la frana abbia dischiuso tra due cime, a un avvallamento della forma in cui i valori lunghi delle note biancheggiano quali scheletri fossili alla luna, mentre la voce celebra, con la liturgia del “respiro sensibile”, la nuova genesi della vita. La sucessiva Toccata risolve le tensioni in un arco formale circolare. Gli Interludi Elegiaci per chitarra hanno la gioviale invadenza di un Ricercare barocco. Nel Primo di essi, Bedetti celebra la consonanza di armonia e melodia: dalla densità degli accordi iniziali, infatti, deriva il libero flusso di arpeggi da cui ha, infine, origine un tema dalla dolente insistenza in pochi intervalli regolari, e la cui natura proteiforme ha origine dalle continue varianti ritmiche per cui dilata progressivamente la sua ossessiva immanenza. Il Secondo brano esplora le possibilità espressive della Siciliana: quell’ ossessivo cullare che sembra venire da un istante prima del mondo creato. Anche qui Bedetti utilizza uno degli artifici prediletti della polifonia barocca: le simmetrie speculari tra due voci. Il Terzo Interludio è una Toccata in cui un’immaginaria orchestra dagli accordi pieni sostiene una voce la cui melodia è costruita sulle note di passaggio e di ripieno armonico. L’esito è il suggerire una scala di seta discendente da nuvole su cui un arcobaleno stenda le sue campate. Con la sua tipica esigenza di coerenza formale, Bedetti riassume nel Quarto brano tutto il senso della raccolta: la voce superiore sviluppa un tema costruito sulle ‘note di volta’ di tutte le melodie esposte nell’arco della raccolta, mentre la parte del basso riassume, nel suo inesorabile procedere, lo schema armonico dei sei brani. Di conseguenza, il Quinto Interludio è una combinazione dei caratteri del Primo con quelli del Secondo: le prime battute fissano gli intervalli fondamentali, su cui si innesta una progressione a due voci che nasconde al suo interno una melodia ‘fantasma’. Nell’Ultimo brano la ricerca formale diventa decantata rarefazione: la solida fondazione della progressione melodica nei rivolti successivi di uno stesso accordo si dilata in una sequenza che vede il basso dischiudere risonanze sempre più profonde, in un rovesciamento del clima del Primo Interludio che bene illustra le intime ragioni speculari dell’intera raccolta. In Marsia e Apollo, per flauto e arpa, ritroviamo una delle scelte stilistiche preferite da Bedetti: la creazione di due palcoscenici strumentali indipendenti, col flauto librato in una libera improvvisazione che esprime il panico fluire della Natura, e l’arpa che tenta di costringerlo nelle ritorte necessità dell’ Arte, così come, nel mito greco cui il brano allude, il musico Marsia sconfigge, con la sua imprevedibile ispirazione, il misurato linguaggio di Apollo, salvo venire da questi, per l’affronto, punito. Nella sezione centrale, il modo in cui Bedetti suggerisce la competizione tra i due strumenti è di una mezza strabiliante; il flauto anticipa sempre di una frazione le invenzioni dell’arpa, che però, per la sua progressiva animazione ritmica, obbediente alle inderogabili ragioni della Forma, si intuisce già dall’inizio, inevitabilmente, vincente; ed è come se l’arpa suggerisca l’ottusa persistenza del destino sul volo incontenibile dell’ Anima. Nella Lirica di Eugenio Montale la metafora cerca un nuovo rapporto tra uomo e natura. Ne L’Agave su lo scoglio, per violoncello e pianoforte, Bedetti persegue la via del naturalismo: la successione di accordi aumentati su cui si distende la melodia lirica ed effusiva dello strumento solista evoca l’idea di un microcosmo irradiato di luce. Tutto, nel Primo brano, si svolge in un mondo infinitamente piccolo, in cui il volgere di un raggio di sole assume l’aspetto di una catastrofe. Così, l’esito del canto è una sezione Con Fantasia in cui il tema viene riassorbito negli intervalli degli accordi al basso; quasi a suggerire l’idea di una vita inorganica, conclusa nello spazio di pochi istanti. Il Secondo Studio è un’ Arietta melodrammatica ‘di bravura’ la cui brillante idea è quella di procedere a ritroso, dalle sue variazioni all’immanenza conclusiva degli intervalli fondamentali. La prima delle Tre Ricreazioni per violino e pianoforte è costruita secondo una formula cara a Bedetti: il gioco di riflessi tra i due strumenti, che qui diventa, data la persistenza del tema nell’intervallo di una quarta, come il gioco di luminescenze che dà il ruotare di un prisma. L’artificio della crescente proliferazione ritmica suggerisce il senso di uno sfondamento dello spazio che si fa meditazione sul mistero del tempo. Nel Secondo brano, Adagio Cantabile, la parodia del melos barocco raggiunge la sua apoteosi: la civiltà del Concerto Grosso veneziano suggerisce il pieno sinfonismo di un’orchestra immaginaria. Il brano conclusivo persegue il principio opposto: nel libero disfrenarsi dell’invenzione, gli agglomerati armonici si distendono progressivamente nelle libere arcate dell’ordito melodico, fino allo scintillio sfrenato delle volute conclusive. L’Auriga Celeste per pianoforte a quattro mani, vede Bedetti nuovamente alle prese col Mito; in questo caso, Fetonte, e la sua sfida al Sole, sul carro infuocato. Il carro del sole è un Ricercare che procede verso sempre più strette consonanze, a indicare il pericoloso rastremare con cui l’eroe provoca l’astro fulgente. La successiva Implorazione è una Barcarola che esprime la paura umana di sfidare l’ignoto. Ne Il volo di Fetonte la progressiva elusione degli accenti regolari esprime il venir meno di ogni appoggio, lo spaventoso incedere verso un destino precipitoso, cui segue una proliferazione sullo stesso materiale che si fa espressione plastica de I fulmini di Giove, quasi Bedetti volesse alludere alla libera scelta per cui Fetonte va incontro alla sua fine. Il pianto delle Eliadi, le sorelle di Fetonte, è costruito, brillantemente, sul rovesciamento dell’idea precedente: ciò che in cielo è gloria, tra i mortali è lutto. Infine, ne L’Ascesa di Fetonte, la divinizzazione dell’eroe viene evocata attraverso la risoluzione della progressione armonica su cui è costruito il primo brano, a indicare la scaltra misura con cui Bedetti sa rendere la coerenza formale delle sue composizioni, strumento per narrare le vicende interiori dell’animo umano. Ed è questa, a conti fatti, la poetica sottesa a tutto il suo universo di compositore. © 2000 – Alessandro Zignani