STUDIES-VARIATIONS

Tiziano Bedetti piano works © Tactus TC 970201 Tiziano Bedetti (pianoforte) Playing time 53’16”

PREVIEWS

Traccia Durata MP3
1 Arpeggios: Allegro 01:59 Play
2 Thirds: Allegro 02:25 Play
3 - Legato: Andante 05:21 Play
7 - Sixths: Ecstatic 02:52 Play
8 - Rythmic: Allegro 04:26 Play
12 - Fugue: Moderately, Fast 04:02 Play

UNO SGUARDO DI LUNGO ORIZZONTE SUL PIANISMO CONTEMPORANEO RIPRENDENDO GENERI E FORME DELLA TRADIZIONE EUROPEA

  Tornato sui suoi passi di virtuoso del pianoforte sull’onda di una collaborazione con Rai Trade che ne ha patrocinato la committenza, Tiziano Bedetti ci offre ancora una volta testimonianza di un pensiero musicale singolarmente ricco ed originale quanto estraneo alle poetiche dell’ora che corre: « Ho pensato a dodici Studi da concerto di diverso carattere in cui indago alcuni aspetti tecnici della tastiera: terze, seste, ottave, scale, accordi, legato, ritmo, agilità. Tutto entra in gioco: dal riferimento ai classici ( Clementi, Chopin, Debussy), al jazz ( Oscar Peterson), al rock, alla disco music ma anche alle tradizioni extraoccidentali: ritmi e scale indiane, arabe, egiziane, giapponesi. Sento la necessità di vivere il nostro tempo attraverso l’intreccio di culture diverse e lontane non solo geograficamente ma anche cronologicamente. Oltre alla costruzione della forma una componente indispensabile nella mia musica è la cantabilità della melodia, la modernità non esclude la cantabilità». Convinto, come i grandi compositori dell’inizio del Novecento italiano, “in primis” Puccini, che il “melos” costituisca risorsa quintessenziale del nostro patrimonio musicale e figlio di una terra ferace melodrammaticamente, egli si è posto sulla via di uno “studium” che è innanzitutto, ricerca amorosa di uno stile limpido e fresco come zampilla purissimo dalla sua personalità pacata e riflessiva. Per questo il suo è un succedersi di variegate immagini del “coreutico” contemporaneo nel legame con un potenziale vocalismo di cui si sostanzia la vena poetica di questo diarismo. Fogli d’album che fanno dell’aereo e quasi dell’involontario la loro corona, sono il frutto rigenerante, larvatamente neo-debussiano, della misura stilistica più lontana dai miti razionalistici che l’avanguardia coltivò come intristiti fiori di serra o nature morte o pallide reviviscenze di pensieri che muoiono. Al contrario, il suo muovere intuitivo penetra in un vivente periodare accogliendo nella sua scrittura i palpiti di suggerimenti che gli vengono dalle più diverse fonti anche se soprattutto dallo studio fenomenologico del ritmo e dei ritmi di cui si connota il “popular” contemporaneo. Nulla, tuttavia, lo condiziona e non vi è alcuna adesione feticistica che lo possa far identificare con particolari zone di tendenza musicali o culturali “latu sensu”. Ecco allora la sua “verve” giocosa a dominare, il grazioso itinerario di uno zingarismo che non ha nulla della “bohème” conosciuta o del migrare del giovanilismo odierno. Armato di un mestiere solidissimo, pianista tecnicamente inappuntabile, contrappuntista accorto e dalle soluzioni sempre nuove, costruisce qui un monumento all’arte della variazione come innesto di temi classici e di minore bellezza e grazia. Seguendo ancora una volta il “paulo mai ora canamus” pascoliano, legandosi a bellissime soluzioni che rendono il suo canto più vasto e sfuggente ma teso verso orizzonti sconfinati quando la melodia e il pedale ritmico-armonico che vi è connesso vibrano all’unisono in singolari echi di molteplici affetti. Il suo segreto sta tutto nell’occultare le asperità e difficoltà della partitura come egli ha appreso dai grandi della storia compositiva europea: ecco allora apparire particolari linee di chiaroscuro, lunghe pedalizzazioni quasi senza soluzione di continuità fino a quella fuga su movimenti improvvisatorii cui mira consapevolmente tutta la sua nuova “scientia” armonica neotonale come un messaggio solitario e schubertianamente rivolto ad un neoliederismo “di strada” (se così lo potessimo definire non essendo riduttivi) nato dalle forze dell’antiretorica e della comunicazione cui la musica colta oggi agogna “gemitibus inenarrabilibus” dopo l’orgia esiziale dell’intellettualismo passato. Forti della necessità costruttiva tanto cara ai classici di un’architettura costituita dall’enunciazione del tema seguito dai suoi molteplici sviluppi come ornamentazione ed intensificazione ritmico figurativa, le ventiquattro Variations per pianoforte che precedono di qualche anno gli Studies, attingono alla tradizione plurisecolare del pianismo che va dal periodo preclassico ai nostri giorni. Molte sono le influenze che vi si possono riscontrare da Bach, Beethoven, alle radici venete e veneziane fino alle lingue del presente musicale, rivisitate attraverso tutta la fenomenologia del “popular” giovanile odierno decontestualizzato e ironicamente trattato. In effetti, l’autore ricerca una nuova melodia che si lega ad un filo rosso comune che stà alla base di tradizioni diverse: il musical americano, il teatro tradizionalmente melodrammatico europeo (pucciniano), gli esecutori di tanti gruppi giovanili a più voci al di fuori dell’ambito della musica europea, costituiti da una sorta di neomadrigalismo di radici italianizzanti che si rifanno al “melos” concertante vocale e strumentale di radici lontanamente monteverdiane, allargate attraverso le poetiche degli stili giovanili che si incrociano fra vocalismo e strumentalismo. Il tema di accordi arpeggiati periodicamente ricorrente, di matrice quasi clavicembalistica, sarà l’innesco che darà inizio ad una serie di variazioni-danzanti che passando attraverso vari momenti “blues”, “jazz”, “rock” e isole di lirismo nostalgico, confluiranno in un’apoteosi finale quasi catartica. E’ stato scelto il ritmo di 4/4 , metro che si adegua ad una visione dei generi che derivano da un incrocio di linguaggi musicali europei (tradizione colta viennese in un arco plurisecolare) ed extraeuropei (ritmi sud americani) che può essere riconosciuto nei più recenti fenomeni di costume come espressione del movimento corporeo più libero. Il compositore vuole farci comprendere che i generi sommi della classicità erano anche i più ricchi e i più assolutamente aperti alle lingue nuove della musica universalmente diffusa e testimoniata dal universo della società post-industriale. Un saggio oggi esemplare di far conflagrare i mondi culturali del passato e del presente da parte di un compositore che avendone vissuto a fondo tutta la contraddittorietà ma anche la necessità e la forza linguistica, le pone a confronto in un “melting pot” stilistico in cui anziché elidersi, ne ribadiscono ancor più la sostanza comunicativa. Un tentativo riuscito di ritrovare dunque un interlocutore vivente che una certa musica d’arte avanguardistica aveva invece condotto verso il pantonalismo (e il silenzio). Sono tutti spunti di una poetica che nell’ultimo decennio il compositore persegue, nell’intento di una visione più vasta del discorso musicale che si ricollega all’idea della danza, del balletto con quelle che sono le tematiche più sentite dell’attuale momento storico musicale. Enzo Fantin